La Corte di Cassazione è nuovamente intervenuta in materia di pubblicità comparativa e concorrenza sleale (Cass.civile, sez.VI, ordinanza 7 gennaio 2016 n.100).
“Ferme le disposizioni che concernono la tutela di segni distintivi e di diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque … si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente”.
Nel caso in esame, una società aveva presentato i propri prodotti con lo stesso nome utilizzato come marchio da altra e ben più famosa società.
Nei precedenti gradi di giudizio i giudici avevano affermato che la società chiamata in giudizio:
“Aveva presentato i propri prodotti come simili (addirittura medesimi) a quelli di un concorrente noto, sfruttandone la rinomanza tra i destinatari del messaggio e così facendo accreditare i propri prodotti presso la clientela senza sforzi di investimento”
e che
“Nel promuovere i propri prodotti, aveva indebitamente usato il marchio del concorrente, facendovi espresso riferimento nell’intestazione del messaggio e implicito richiamo nel contesto del messaggio pubblicitario, con riferimenti alla “casa madre” e con la manifesta volontà di accreditare la qualità del proprio prodotto, presentando i propri prodotti come “medesimi” rispetto a quelli marchiati e caratterizzati da elevati standard qualitativi”.
In tema di pubblicità comparativa e concorrenza sleale la Corte di Cassazione ha avuto modo di enunciare alcuni principi già affermati in precedenza, in particolare che
“La concorrenza sleale per appropriazione dei pregi dei prodotti o dell’impresa altrui (articolo 2598 n.2 cod.civ) non consiste nell’adozione, sia pure parassitaria, di tecniche materiali o procedimenti già usati da altra impresa (che può dare luogo, invece, alla concorrenza sleale per imitazione servile), ma ricorre quando un imprenditore, in forme pubblicitarie od equivalenti, attribuisce ai propri prodotti od alla propria impresa pregi, quali ad esempio medaglie, riconoscimenti, qualità indicazioni, requisiti, virtù, da essi non posseduti, ma appartenenti a prodotti od all’impresa di un concorrente, in modo da perturbare la libera scelta dei consumatori”
(Cass. Sez.1, sentenza 9387 del 1994; Cass.Sez.1, sentenza n.6928 del 1983)
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