L’articolo 19, comma 2 del Codice Italiano della Proprietà Industriale dispone che:
“Non può ottenere una registrazione per marchio di impresa chi abbia fatto la domanda in mala fede”.
In questo articolo parliamo di:
La casistica è varia, comunque esempi di deposito del marchio effettuato in mala fede sono il deposito eseguito al solo scopo di ostacolare un concorrente sul mercato e anche quello posto in essere da chi, essendo a conoscenza dell’investimento pubblicitario effettuato da una determinata impresa per lanciare un nuovo marchio e avendo avuto modo di prendere visione del marchio stesso, depositi la domanda di marchio prima dell’azienda investitrice.
Altra fattispecie che può essere inclusa nel divieto in questione è data dal deposito di un marchio molto conosciuto in uno Stato estero ma non ancora nel proprio, generalmente effettuato allo scopo di anticipare sul tempo il titolare originario e trarre indebitamente profitto da tale azione, ad esempio cercando di ottenere il massimo guadagno dalla cessione del marchio.
Altra ipotesi tipica di mala fede, è quella del deposito del marchio eseguito da un distributore o agente senza l’autorizzazione del titolare del marchio.
Marchio in malafede da un distributore: un caso italiano
Esaminiamo la sentenza della Corte d’Appello di Bologna del 30 agosto 2013, iscritta al numero 52 del ruolo generale dell’anno 2009, che ha confermato la sentenza del Tribunale di primo grado che aveva dichiarato un marchio nullo per deposito effettuato in malafede ai sensi di tale articolo.
La vicenda trae origine dalla richiesta di una società indiana di dichiarare nulla la registrazione di marchio italiano (di seguito, marchio “XY”) depositato da una società italiana, in quanto presentato in malafede.
La società indiana, operante nel settore della produzione e commercializzazione di film di poliestere, usava da molti anni in India il marchio “XY”. La linea di prodotti contraddistinta da tale marchio era stata distribuita in Europa per oltre dieci anni dalla società italiana. Dopo l’interruzione dei loro rapporti commerciali, la società italiana aveva depositato in Italia, autonomamente e a proprio nome, la domanda di marchio “XY”. La società indiana aveva agito in giudizio per far dichiarare la nullità del marchio italiano “XY” sul presupposto che la società italiana avesse agito in malafede, abusando delle conoscenze acquisite durante il loro pluriennale rapporto contrattuale.
La richiesta della società indiana è stata accolta sia nel primo che nel secondo grado di giudizio. La mala fede è stata riconosciuta per il ricorrere di una serie di circostanze, tra le quali:
- La società italiana era distributrice del prodotto XY in Europa e ha immesso per lunghi anni tale prodotto in Italia. A questo proposito il Tribunale di Bologna osserva come
“la circostanza che la società italiana ha immesso sul mercato italiano per lunghi anni il prodotto XY rende certa la sua malafede all’atto della richiesta di registrazione a proprio nome e ciò … anche perché per tale via era pienamente consapevole del fatto che ciò avrebbe danneggiato chi già da tempo ne faceva uso in Italia portando gli abituali consumatori, che da tempo conoscevano il prodotto, a ritenere che altri in realtà avesse titolo per utilizzarlo, fatto particolarmente grave proprio per l’abuso che per tale via si compiva del precedente rapporto di collaborazione e quindi della specifica conoscenza anche della clientela italiana della società indiana”.;
- Tra le due società esisteva un importante rapporto di collaborazione d’affari, a nulla rilevando il fatto che tale rapporto non fosse stato formalizzato in un contratto di agenzia o di distribuzione.
La Corte di Appello di Bologna, pertanto, ha confermato la sentenza del Tribunale di primo grado e ha ritenuto che
“la fattispecie integra, senza incertezze, l’ipotesi di registrazione di marchio in malafede di cui all’art. 19, II c, CPI”.
Marchio in malafede da un distributore nel regolamento del marchio UE
Le ipotesi disciplinate dal Regolamento 2017/1001 sul marchio dell’Unione Europea in tale materia sono tre:
- “divieto di uso del marchio UE registrato a nome di un agente o rappresentante” (articolo 13)
“Se un marchio UE viene registrato, senza l’autorizzazione del titolare del marchio, a nome dell’agente o rappresentante di colui che di tale marchio è titolare, quest’ultimo ha il diritto di opporsi all’uso del marchio da parte dell’agente o rappresentante, senza la sua autorizzazione, a meno che l’agente o il rappresentante non giustifichi il proprio modo di agire”. - “trasferimento di un marchio registrato a nome di un agente” (articolo 21),
“Se un marchio UE viene registrato, senza l’autorizzazione del titolare, a nome dell’agente o rappresentante di colui che del marchio è titolare, quest’ultimo ha il diritto di chiedere la cessione del marchio UE a proprio favore, a meno che l’agente o il rappresentante non giustifichi il proprio modo di agire”.
La legge dispone la seguente possibilità a favore del titolare del marchio:
- “le anteriorità invalidanti rispetto ad un marchio comunitario” (articolo 8, comma 3).
“In seguito all’opposizione del titolare del marchio, un marchio è del pari escluso dalla registrazione se l’agente o il rappresentante del titolare del marchio presenta la domanda a proprio nome e senza il consenso del titolare, a meno che tale agente o rappresentante non giustifichi il suo modo di agire.
L’articolo dispone la possibilità concessa al titolare di opporsi alla registrazione del marchio.
È importante sottolineare che, in base alle direttive sull’opposizione dell’EUIPO, (Parte c, sezione 3: deposito non autorizzato da parte di agenti del titolare del marchio)
“i termini “agente” e “rappresentante” vanno interpretati in senso ampio, per abbracciare ogni tipo di rapporto basato su qualsiasi accordo commerciale (retto da un contratto scritto o orale) nel quale una parte rappresenti gli interessi dell’altra, a prescindere dal nomen juris del rapporto contrattuale intercorrente tra il titolare-mandante e il richiedente il marchio dell’Unione Europea”.
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