Che relazione esiste tra l’imitazione servile e la capacità distintiva quando parliamo di concorrenza sleale?
Per imitazione servile (in materia di concorrenza sleale), s’intende l’imitare fedelmente e pedissequamente i prodotti di un concorrente così da creare confusione nel pubblico sulla loro provenienza e riguarda le parti appariscenti ed esterne del prodotto, ma non tutte le forme idonee a costituire oggetto di protezione brevettuale.
Per capacità distintiva s’intende la capacità di un marchio di distinguersi dai prodotti concorrenti e di risultare agli occhi del consumatore, unico e distintivo.
L’articolo 2598, 1) del codice civile dispone che compie atti di concorrenza sleale chiunque
“usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente”.
La Sezione Specializzata in materia di proprietà Industriale e Intellettuale del Tribunale di Milano (sentenza del 2 maggio 2012) ha avuto modo di ribadire come l’ipotesi di imitazione servile nella concorrenza sleale sia integrata solo in presenza dei due requisiti dell’originalità del prodotto imitato e della sua capacità distintiva, che devono essere presenti in via cumulativa.
In riferimento al requisito della capacità distintiva, il Tribunale ha avuto modo di precisare che
“la presenza in un preciso momento storico della capacità distintiva in un determinato prodotto non consente di proiettare all’infinito ed in modo automatico nel tempo la permanenza di tale caratteristica, che quindi non si può presumere esistente per il solo fatto che vi sia stata in passato”.
Quindi, il fatto che la capacità distintiva sia stata presente in un determinato periodo non significa che sussisterà automaticamente per sempre.
In particolare, il Tribunale precisa che:
“la forma potrebbe perdere la sua capacità distintiva laddove l’adozione sistematica e generalizzata della stessa da parte di altri operatori comporti la cosiddetta standardizzazione. In questa eventualità è infatti pacifico che non sia invocabile la tutela prevista dall’articolo 2598, 1) codice civile”.
Nel caso sottoposto al suo esame il Tribunale di Milano ha ritenuto che la particolare forma di una macchinetta da caffè, un tempo riconoscibile dal pubblico come proveniente da una determinata impresa e quindi dotata di capacità distintiva, avesse smarrito nel corso degli anni tale sua caratteristica e fosse diventata la forma di caffettiera comunemente utilizzata da decine di imprese produttrici di modelli identici o simili.
A questo proposito il Tribunale sostiene che
“in definitiva, il consumatore mediamente avveduto che viene posto di fronte ad una caffettiera con questa conformazione percepisce la sola presenza dell’oggetto occorrente per la preparazione domestica del caffè, mentre l’associazione tra prodotto e produttore risulta interamente affidata ad altri elementi distintivi”.
Alla luce di quanto sopra, il Tribunale ha ritenuto che il requisito della capacità distintiva non fosse più presente nella macchinetta da caffè un tempo riconoscibile dai consumatori ma la cui forma si era standardizzata nel corso degli anni.
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